Dignità! Dignità!

Era una frase ricorrente nei discorsi di Stefano Bellotti: “Oggi il cibo non ha più dignità”. 

È un riflesso strano, forse sarebbe meglio definirlo incredibile per l’evidenza del fenomeno. Si spendono soldi per telefoni, per automobili, per vestiti di scarso valore ma di altissimo prezzo, mentre per il cibo si mantiene un atteggiamento opposto: il cibo biologico? costa troppo! L’olio extravergine a 15 euro al litro?! È una follia! 

Si potrebbe dire semplicemente che questo atteggiamento riflette i nostri tempi. Investiamo su tutto ciò che ha un valore esteriore e trascuriamo tutto ciò che è dentro di noi. Ma forse non è così semplice perché c’è addirittura un atteggiamento che vuole apparire virtuoso quando si parla di risparmiare sul cibo. Non esiste pudore nel comprare un paio di scarpe da ginnastica per 800 euro, non esiste vergogna nel pianificare una vacanza in una meta esotica super costosa, anzi tutto ciò è materiale pregiato per vantarsi sui social network. Per il cibo è esattamente il contrario. Le zucchine biologiche, le uova di gallina allevate a terra, un vino biodinamico: sono considerati gli acquisti di un radical chic dissennato oppure sono semplicemente una spesa incauta, dato che sotto casa c’è chi vende tutto a pochi euro, ovvero il supermercato! 

È bene chiarire che per "spesa per il cibo" qui si parla di pagare un prezzo equo per un cibo di qualità, un cibo prodotto rispettando l’ambiente che non sia il risultato di culture intensive spinte da additivi chimici e rispettoso delle persone che hanno lavorato al processo produttivo. Escludiamo i sovrastimati tartufi o le acciughe di un mare che per contenerle tutte dovrebbe essere un oceano.

Cerchiamo allora di ragionare su tre aspetti per analizzare questo fenomeno, questa sorta di riflesso per il quale automaticamente quando si acquista cibo si tende a risparmiare senza pensare alla qualità di ciò che ingeriamo e al costo che comporta produrre un alimento sano e buono. 

Tutto si fonda sulla spersonalizzazione. 

1) Anzitutto la comunicazione: quasi tutte le campagne pubblicitarie sul cibo sono fondate solo su un’offerta vantaggiosa economicamente, è il famoso “ . . .a soli *,99”. Le industrie alimentari si basano su un principio semplice e spietato come tutte le multinazionali che si rispettino: aumento costante dei fatturati e degli utili. Ma l’aspetto inquietante quando si parla di alimenti è che possono convincerci ad acquistare tre piumini ogni inverno, possono convincerci ad acquistare un’automobile alle nostre latitudini con i sedili riscattabili, ma un essere umano mediamente sano non potrà mai mangiare più di (circa) 1000 kg di cibo l’anno. La soluzione è solo una: abbassare il prezzo abbassando drasticamente la qualità esaltando la convenienza e non la qualità che ovviamente ha un costo. 

2) Il secondo aspetto sono le modalità di acquisto che inevitabilmente ci portano ai meccanismi della grande distribuzione che rappresentano il 99,9 % percento dei luoghi di acquisto di cibo soprattutto nelle città. Anzitutto il mondo naturale non deve esistere: non ci deve essere relazione tra il cibo e la terra. Entrare in un supermercato se ci pensate bene è un’esperienza surreale: aria condizionata, assenza di odori, luci al neon... L’unico accenno di vita naturale è guarda caso proprio (e sempre) all’entrata dove c’è il reparto ortofrutta e alcune volte i fiori o il pesce. Poi tutto il resto è un percorso asettico dove si deve dimenticare cosa è veramente il cibo, anche nelle forme: biscotti a forma di cuore, carne già tagliata a dadini, cereali a forma di pupazzetti. Mai mettere in relazione chi acquista il prodotto con chi lo produce. Informarsi su chi produce, investire tempo e risorse nella ricerca del prodotto che abbiamo individuato è lecito per gli apparecchi elettronici, per un orologio ma per l’acquisto di un alimento è qualcosa di lontano che si vuole resti estraneo all’esperienza di acquisto. Solo una perdita di tempo. Si lasciano i bambini in macchina, che avranno poi come ricompensa una merendina super zuccherata, e si corre a comprare cibo al supermercato. Una significativa percentuale della nostra spesa settimanale la si compra in gran parte una volta alla settimana. Andrà sprecata ma non importa, non abbiamo perso tempo e, soprattutto, non ci siamo posti troppe domande. Forse, però, quella percentuale se non fosse sprecata potrebbe darci la possibilità di acquistare prodotti più costosi ma più sani, più buoni e più rispettosi dell’ambiente.

3) Il terzo aspetto che in realtà ricomprende i due precedenti, è la carenza culturale nel capire cosa è buono, cosa fa bene e cosa ci dà nutrimento. Qualcuno forse ricorderà un ex ministro dell’economia di alcuni anni fa il quale sostenne che con “la cultura non si mangia”. Potremmo cambiare la frase
sostenendo che la cultura (del cibo) ci aiuta a mangiare bene e in maniera più sana e consapevole. Lo si capisce fin dai primi anni di scuola dei nostri figli. La qualità del cibo non è quasi mai presa in considerazione o - se non altro - non è in cima alle priorità delle (tante) carenze del sistema scolastico italiano. Ci si preoccupa della mancanza di carta igienica, della carenza di lavagne, ma poco o nulla di cosa i nostri figli mangiano a scuola. E andando avanti nella crescita questa trascuratezza rimane di riflesso: quando si fa sport per esempio o quando si viaggia tanto per lavoro non ci si preoccupa di avere un’alimentazione equilibrata e sana. In generale informarsi sul cibo genera una sorta di sgomento, la risposta classica quando si chiede a qualcuno se fa uno sforzo per informarsi sul cibo che mangia è: “ma come faccio ad informarmi!??” Spersonalizzare il cibo allontanandolo dai luoghi e da chi lo produce amplifica questa presunta difficoltà nel sapere dove e chi produce cibo (addirittura poco tempo fa un noto produttore di pasta italiana pubblicizzava i suoi prodotti sostenendo che erano fatti con i migliori grani provenienti da tutto il mondo). La terra e l’agricoltore sono mondi resi lontani, altri! Si punta tutt’al più qualche volta su sterili disciplinari: i famosi prodotti IGP che spesso generano più una falsa informazione che altro (quanti sanno che il prosciutto di Norcia è regolamentato da un disciplinare che stabilisce in modo generico la provenienza degli animali e ne regola solo la trasformazione? A Norcia non ci sono allevamenti di maiali!). 

In sintesi è bene semplicemente rendersi conto che esistono produttori di alimenti che lavorano in modo artigianale e che sono attenti alla qualità dei prodotti che realizzano. Basta informarsi. Quando si va a casa di un amico e si mangia un buon formaggio o si beve un buon vino appuntatevi il nome del produttore, andate a cercare su internet e cercate di capire chi è, cosa fa, come lavora, mandategli una mail chiedendo informazioni sul suo lavoro. Nella maggior parte dei casi sarà felice e orgoglioso che qualcuno si interessi al suo lavoro e se non vi dovesse convincere abbandonatelo immediatamente. Così facendo un poco alla volta vi creerete un piccolo panorama personale di aziende di riferimento che vi possono fornire gli alimenti. 

Oggi la scusa della difficoltà di reperire il cibo non è più valida: esistono molti canali per fare acquisti anche da piccoli produttori (gruppi di acquisto, consegne a domicilio, acquisti on line diretti ecc. ecc.); non è necessario recarsi personalmente da un produttore a vedere con i propri occhi cosa vuole dire fare agricoltura vera, anche se una volta ogni tanto non sarebbe sbagliato farlo, rinunciando magari all’affollato ristorante in riva al mare quando i primi caldi della primavera si fanno sentire. Dovremmo riuscire a capire veramente quanto ciò che mangiamo può metterci in contatto con la terra e con l’energia solare, facendoci comprendere il profondo legame che si crea con il mondo naturale quando mangiamo. Ma questa è un’altra storia che magari affronteremo un’altra volta.


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